CD COVER STRADELLA SANTA EDITTA

Alessandro Stradella

Santa Editta vergine e monaca, Regina d’Inghilterra

Oratorio a cinque voci e continuo

libretto di Lelio Orsini, duca di Vicovaro.

Veronina Cangemi soprano Santa Editta

Francesca Aspromonte soprano Nobiltà

Claudia di Carlo soprano Umiltà

Gabriella Martellacci contralto Grandezza

Fernando Guimaraes tenore Bellezza

Sergio Foresti basso Senso

Ensemble Mare Nostrum

Andrea De Carlo Direzione

Arcana – Outhere music A 396

Schermata 2016-11-02 alle 16.07.41

Di Alessandro Stradella compositore fra i più alti del Seicento italiano e della sua vita controversa abbiamo parlato nella precedente recensione sull’oratorio San Giovanni Crisostomo diretto da Claudio Astronio alla guida dell’Harmonices Mundi. Proprio per la sua grandezza si stanno infittendo le incisioni delle quali Ensemble Mare Nostrum ha iniziato un progetto di lunga data “ Lo Stradella Project” del quale il Santa Editta è la terza produzione dopo la Serenata La Forza delle Stelle, I’oratorio San Giovanni Crisostomo.

Di questo oratorio stradelliano uno dei sei pervenutoci, esistono due edizioni conservate nella Biblioteca Estense di Modena che corrispondono alle due esecuzioni del 1684 e del 1692 fatte presso il teatro privato della corte di quella città. C’è da notare che entrambe le due rappresentazioni dell’oratorio delle quali abbiamo notizia sono avvenute dopo la scomparsa del compositore nel febbraio del 1682, la qual cosa dimostra il grande successo anche dopo la morte di Stradella soprattutto in quelle corti che già lo avevano apprezzato in vita. Naturalmente non sappiamo se ci furono precedenti esecuzioni dell’oratorio e come il Santa Editta sia giunto alla corte della città emiliana.

L’oratorio è centrato sulla figura, in verità non molto nota, di Santa Editta o Edith di Wilton, figlia illegittima del re anglosassone Edgardo detto Il Pacifico, nata a Kemsing nel 961 e morta nell’Abbazia di Wilton il 15 settembre del 984. La storia della sua vita ci è giunta narrata da Gozzelino di San Bertino. Ella nacque dalla nobildonna inglese Vulfrida che il re Edgardo strappò a forza dal convento dell’Abbazia di Wilton e portò a Kemsing, facendo in seguito penitenza per il suo atto violento non indossando la corona per sette anni. Successivamente Vulfrida riuscì a sfuggire a Edgardo e ritornò all’Abbazia dove divenne Badessa e dove la figlia Editta venne cresciuta dalle monache, prendendo in giovane età il velo. Rifiutò di diventare Badessa di diverse comunità monastiche che il padre le aveva offerto e scelse di rimanere a Wilton. Sorellastra di Edoardo II d’Inghilterra, prematuramente scomparso, le fu offerta la corona del regno da un gruppo di nobili ostili al fratellastro Etelredo, detto lo Sconsigliato, ma lei rifiutò il trono. Nonostante questo in vita amò il lusso e la magnificenza degli abiti e delle pompe esteriori. Ai rimproveri del vescovo di Winchester Etelvado rispose che solo Dio poteva giudicare le sue azioni e vedere sotto l’esteriorità delle apparenze. Fu fatta santa per volontà del fratellastro Etelredo.

Secondo l’affascinante lettura che di questo oratorio dà Arnaldo Morelli nelle note informative ed ora anche in un testo pubblicato su “A Journal of the Humanities – Storie e Linguaggi – Fasc. 2 del 2016”, dal titolo emblematico “Tra chiostro e trono. Uno scenario storico-politico per l’oratorio San’Editta di Alessandro Stradella”, la scelta per una Santa, la cui devozione a Roma e in Italia in genere era praticamente inesistente, fù dovuta a motivivazioni assolutamente politiche. Una prima ipotesi si poteva inizialmente incentrare sulla regina in esilio a Roma Cristina di Svezia che lasciò il suo regno per convertirsi al Cattolicesimo e condurre una vita che però nulla aveva di ascetico a Roma e non solo, anzi le fonti storiche ci documentano il fatto non irrilevante che lei bramò e fece numerose pressioni anche presso Luigi XIV, per aiutarla a conquistare il trono di Napoli. Anzi mai rinunciò ai fasti che comportava il suo status di regina anche se senza trono. Secondo Arnaldo Morelli, e mi sembra assolutamente un’ipotesi di indubbia efficacia, in questi stessi anni ’70 del Seicento c’era un altro personaggio di caratura religiosa ben diversa dalla regina svedese che fu coinvolta in una storia che la vide protagonista di una scelta sofferta e mai abbastanza fatta propria fra un trono e la vita monastica. Si tratta di una principessa della famiglia degli Este Maria Beatrice, figlia del defunto duca di Modena Alfonso IV e della duchessa reggente Laura Martinozzi, nipote di Mazzarino, sorella del duca Francesco II. Il principe James Stuart, secondogenito di Carlo I e fratello di Carlo II , re d’Inghilterra senza eredi diretti, e quindi in pectore re alla morte di Carlo come poi in realtà avvenne, era rimasto vedovo nel 1671 e dopo una serie di pricipesse candidate a divenirne la nuova sposa, su suggerimento del Conte Enea Caprara, felmaresciallo autriaco, fu avanzata al principe la proposta della duchessina quindicenne Maria Beatrice che però fin da giovanissima aveva manifestato la sua ferma intenzione a farsi monaca nel monastero della Visitazione. La stessa duchessa reggente Laura Martinozzi non era eccessivamente entusiasta di dare in moglie Maria Beatrice ad un uomo non più giovane, aveva 41 anni, ma soprattutto con grande fama di libertino. Anche un’altra principessa estense era stata coinvolta Eleonora, che però per sfuggire alle nozze si fece Carmelitana Scalza. Le trattative proseguirono fino al 1673 anche per la ferma intenzione del principe inglese di sposare una fanciulla giovane, che potesse dargli una numerosa prole e soprattutto cattolica. James voleva infatti accelerare i tempi perchè aveva paura che il Parlamento inglese, notoriamente di confessione anglicana,lo facesse recedere dal suo poposito. Fu inviato quindi un emissario, il conte di Peterborough che condusse infine in porto la missione, nonostante la principessa estense fosse assolutamente contraria. Per piegarne la volontà fu necessaio un Breve esortativo, dello stesso papa Clemente X, nel quale Sua Santità chiedeva alla principessa di rinunciare al chiostro e di accettare il matrimonio per il bene della causa cattolica. Addirittura cinque teologi furono concordi nel sostenere la volontà del papa e così si giunse alle nozze per procura il 30 settembre 1673, anche se Maria Beatrice ancora dopo aver incontrato lo sposo non si dava pace della scelta fatta. Sappiamo come andò a finire la coppia regnante cattolica fu cacciata dal Parlamento inglese proprio per la loro religione, in quella che fu chiamata la Rivoluzione gloriosa nel 1688-89, per mettere sul trono inglese una delle ultime principesse Stuart protestanti Maria II e suo marito Guglielmo d’Orange. I due sposi Stuart finirono esuli a Versailles dove mai rinunciarono alle pretese del trono inglese anche per il loro erede James.

Le ragioni per le quali il librettista Lelio Orsini fece cadere la scelta su Santa Editta si fanno un pò più oscure. O perchè appartenente ad un partito avverso a quello filofrancese che aveva caldeggiato le nozze, o per per finalità più pedagogiche -religiose. Infatti Lelio Orsini, personaggio assai devoto, era solito far sermoni di soggetto morale nella Compagnia dei Nobili dell’Assunta, sodalizio istituito nel 1593 e con cappella adiacente alla Chiesa del Gesù. Non è dunque da escludere che questo oratorio per il suo particolare soggetto fosse stato concepito per una esecuzione nell’ambito delle pratiche devozionali di questa Compagnia dell’Assunta e quindi da datare negli anni che vedono la scelta sofferta di Maria Beatrice d’Este, il 1673c.

Della controversa figura di Editta l’oratorio non racconta la vita bensì esso si configura come una disputa in forma accademica fra la Santa e diverse figure simboliche: Umiltà che la spinge verso una vita monacale e Grandezza, Bellezza, Nobiltà e Senso che viceversa la spronano ad accettare il trono e a godere delle gioie terrene.

Il dialogo serrato fra Editta e le varie figure simboliche,e di queste fra di loro, è estremamente affascinante e lascia intatta l’aura contraddittoria che circonda questa monaca ben poco ascetica. Le sue argomentazioni sono deboli e non riescono a contrastare quelle, viceversa solidissime nel razionale ragionamento, delle figure simboliche. La stessa Umiltà, unica Virtù a dar forza a Editta, si mostra arrogante ed ambigua.

E’ come se ci fossero due livelli di lettura, nei quali, quello agiografico e morale, si trova messo in secondo piano da quello proposto da librettista e compositore, che con molta più libertà analizzano i comportamenti ambigui della santa. Spesso si hanno delle modifiche sostanziali nelle affermazioni di Editta, che sembra agire in un modo, ma pensare in tutt’altro.

Il libretto offre dei momenti eccezionali che la musica di Stradella segue con i suoi toni chiaroscurati, come nella seconda parte nel dialogo esacerbato fra Editta e Grandezza, Nobiltà e Senso, con le tre figure profane che come sirene ammalianti proclamano la loro intenzione di raggirare l’umanità con false lusinghe:

Noi sirene siamo a l’alme, siamo

calme

che tradimo, e ci credete”,

nel quale anche la musica si fa suadente e sembra avvolgere nelle sue spire l’uditore.

Mentre nel dialogo con Bellezza che la invita a non porre se stessa in un perpetuo oblio, se Editta risponde con la scelta etica che ci dobbiamo aspettare da una santa, la musica non la segue restituendoci accenti non di contrizione, ma di assoluto piacere.

Se si è quindi giustamente affermato che l’oratorio romano, dopo la fase controriformista delle origini, cambia totalmente pelle nel secondo Seicento, non solo musicalmente avvicinandosi alle forme dell’opera, ma anche negli argomenti scelti, questo otatorio si mostra esemplare di tali scelte. In questo contesto la scrittura di Lelio Orsini e la musica di Alessandro Stradella interagiscono nei vari livelli di lettura e fra di loro con grande audacia e con una libertà impensabile in precedenza nella musica sacra, che i tempi cambiati permettevano loro.

Stradella fra tutti gli autori seicenteschi mi sembra quello a cui meglio e quasi con più insolenza riesce questa audace impresa. La sua scrittura musicale fortemente contrastata, a chiari e scuri di caravaggesca memoria, ci porta in territori fino ad allora sconosciuti ai temi sacri, avvicinandosi più di altri agli approdi di un teatro musicale, in particolar modo veneziano, dove ambiguità e seduzione giocano un ruolo fondamentale.

La sua è una scrittura musicale che fa uso di tutti gli artifici della retorica barocca degli Affetti e che drammatizza i contrasti con il contrappunto delle voci e l’uso sapiente di recitativi a cui seguono arie, duetti e terzetti, ritornelli strumentali, bassi ostinati su temi di danze, in un fluire omogeneo, senza fratture, di una ammagliante bellezza.

Il giudizio sull’esecuzione non può che essere positivo. A cominciare dalla protagonista Veronica Cangemi a cui è stata affidata l’ardua parte di Editta, presente in scena per la totalità dell’oratorio con ben sette arie. La Cangemi si è dimostrata un’interprete d’eccezione nel repertorio seicentesco e stradelliano decisamente non dei più facili, anche per un soprano della sua levatura della quale ha dato prova in moltissimi contesti. La scrittura di Stradella, drammatica, contrastata, ancor più in questo personaggio controverso di monaca-regina, sembra ritagliata su di lei, che la interpreta con una forza e un impatto senza pari.

Anche il resto dei cantanti si è dimostrato all’altezza della difficilissima scrittura di questo oratorio con dissonanze, salti di ottave, contrappunti severi. I soprani Francesca Aspromonte e Claudia Di Carlo, rispettivamente Nobiltà e Humiltà, pur nella giovane età , dimostrano una grande maturità e impressiono per le voci di altissimo livello. Il tenore Fernando Guimaraes nel ruolo di Bellezza conferma le sue doti di grande interprete della musica seicentesca, così come certezze nell’espressione del Recitar cantando sono il contralto Gabriella Martellacci, Grandezza e il basso Sergio Foresti, Senso, entrambi messi a dura prova dalla scrittura di Stradella con incredibili difficoltà che hanno brillantemente superato.

L’Ensemble Mare Nostrum formato da due viole da gamba, violone, violoncello, tiorba e arciliuto, organo e clavicembalo, arpa a tre ordini suonata dall’ottima Marta Graziolino, ha eseguito l’oratorio in modo molto buono, diretto da un Andrea De Carlo che si conferma grande interprete della musica di Alessandro Stradella, che, grazie alla sua attenta lettura, alla perizia certosina con la quale cesella e scolpisce i recitativi, all’incisività con la quale da voce alle parti strumentali, all’abile dispiegarsi sotto la sua direzione del contrappunto, sta crescendo enormemente nella considerazione, facendo divenire al nostro ascolto Alessandro Stradella uno dei più importanti autori della musica seicentesca.

Isabella Chiappara Soria